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The karate kid

Duro colpo alla sanità Italiana

Ancona, 27 aprile 2024 – Chi non ricorda il film Per vincere domani-The Karate Kid del 1984, diretto da John G. Avildsen. È il primo capitolo della serie di Karate Kid, franchise mediatico che riscosse un grande successo commerciale.

Il film creato dallo sceneggiatore Robert Mark Kamen e prodotto dalla Columbia Pictures, riaccese la passione del pubblico cinematografico per le arti marziali.

La serie tratta la storia di adolescenti vittime di bullismo, costretti a difendersi da soli che vengono aiutati dal mentore Nariyoshi Miyagi, l’attore Noriyuki “Pat” Morita,  la cui interpretazione gli valse la nomination come miglior attore non protagonista agli Oscar del 1985.

 

Il maestro impartisce a Ralph Macchio, nel ruolo del giovane protagonista Daniel LaRusso, gli insegnamenti delle arti marziali in modo che possa affrontare i suoi rivali. Con Karate Kid si diffuse negli Stati Uniti e nel resto dell’Occidente, la conoscenza del karate e delle arti marziali e del loro valore anche in termini di difesa personale.

Perché parlare di una pellicola di un film? Per una sorta di similitudine con ciò che sta capitando ai nostri medici, infermieri e operatori sanitari, alla nostra sanità italiana, il nostro fiore all’occhiello ed eccellenza nel mondo. La notizia che ha fatto discutere capita poco prima del 7 aprile, giornata mondiale della Salute, istituita per ricordare che nel 1948 è stata fondata l’Organizzazione mondiale della Sanità e il diritto alla salute è il tema del 2024.

Operatori sanitari del Policlinico Umberto I di Roma, raccontano di aver subito aggressioni da parte di pazienti e parenti esasperati e intolleranti che vanno in escandescenze, al punto che sono costretti a difendersi da questi attacchi violenti che vanno oltre le parolacce, a volte si arriva alle mani.

In loro soccorso è arrivato Giuseppe La Torre, epidemiologo e direttore della Medicina del Lavoro all’Università La Sapienza e all’Umberto I, che si è fatto promotore di un corso di difesa personale, nonostante la presenza in ospedale del posto di polizia. Le vittime sono soprattutto le donne, la categoria più colpita quella degli infermieri (41%) e i medici (3,5%).

Il corso è coordinato dal maestro Adolfo Bei e dal campione di judo Michele Vannacci e vi partecipano 5 istruttori e 18 allievi tra medici e infermieri. Ben 15 le donne. Gli istruttori dicono che per partire la migliore difesa è la fuga anche se spesso non basta.

Tra le mosse di autodifesa, si insegna a bloccare e stendere l’aggressore con l’aiuto dei colleghi, a sferrare colpi con la mano aperta per evitare di fare e farsi male con i pugni chiusi, a liberarsi dalla presa al polso o al collo, a difendersi con i calci anche quando si è a terra e poi vale sempre la regola di liberarsi per poi scappare e chiedere aiuto.

Quello della salute è un diritto fondamentale sancito dall’art. 32 della nostra Costituzione. È un principio universale che investe tutti senza discriminazioni di censo o ricchezza disponibile, pertanto esigibile a tutti. Il Italia questo diritto rischia di essere compromesso, pensiamo ai tempi di erogazione delle prestazioni, alle liste di attesa e alle regioni che hanno un’alta mobilità passiva. Il Servizio Sanitario nazionale va fortemente favorito e tutelato, come lo hanno ricordato in una lettera condivisa, 14 scienziati poche settimane fa. Servono investimenti, soprattutto sul capitale umano, perché proprio il personale, di cui dispongono le strutture sanitarie, è indispensabile per dare risposte adeguate, omogenee sul territorio nazionale e in tempi ragionevoli rispetto alle condizioni di bisogno.

Il percorso di prevenzione, cura e riabilitazione auspicato dalla riforma sanitaria del 1978, è entrato in crisi con la spending review, in sostanza con i tagli alla sanità e con il sacrificio delle misure di prevenzione. Oggi molte delle cure vengono interamente pagate dai cittadini che possono permetterselo per evitare le lunghe liste di attesa. Ma i buoni propositi coltivati durante la pandemia da Covid 19, con lo scopo di assumere infermieri e medici che in Italia risultano essere tra i più vecchi dei Paesi Ocse, l’aumento dei loro salari, il miglioramento delle loro condizioni di lavoro per scongiurare il burnout e la loro fuga verso altri paesi per allontanare il precariato e ottenere una paga migliore, sono finiti nel dimenticatoio? Occorre una rivoluzione culturale verso un welfare di comunità ma medici, infermieri e operatori sanitari hanno fatto miracoli sotto la pandemia e ciò non può ripetersi.

Emmanuele Pavolini, professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro alla Statale di Milano, dice che la sanità non è allo sfascio e nonostante ci siano criticità nella sua manutenzione, continua a garantire una buona qualità delle cure ma nel contempo affronta sfide significative, per questo occorre concentrarsi sulle risorse per garantire un sistema sostenibile e di alta qualità.

Il paradosso della sanità italiana sta nella doppia difesa, l’una verso le disuguaglianze nell’accesso ai servizi per la mancanza di investimenti sul servizio sanitario nazionale, l’altra contro chi minaccia i lavoratori negli ospedali, mettendone a rischio l’integrità  fisica e mentale. Queste situazioni vanno arginate in tempo, come le sponde di un fiume in piena dopo un’alluvione, recuperando quel rapporto di fiducia tra l’operatore ospedaliero e il paziente, ripudiando qualsiasi forma di insofferenza e aggressività. Ma bisogna fare insieme un passo in avanti e recuperare il dialogo e l’empatia.

Giorgio Macellari già Direttore generale dell’Istituto dei Tumori di Milano,  a proposito di Umberto Veronesi, dice che è stato il maestro di almeno due generazioni di medici e che fra gli insegnamenti più incisivi della sua eredità spirituale ricorda una frase: «Per fare il nostro mestiere bisogna amare la gente».

Macellari dice che ci ha messo molto a capire la profondità di quel messaggio. Crede che Veronesi volesse dire che la vita morale del medico non si esaurisce nei suoi obblighi etici ma deve estendersi ai sentimenti, alle emozioni. Sentire emozioni appropriate è la premessa perché il medico faccia ciò che i malati si aspettano da lui. Secondo lui il medico andrebbe incoraggiato sin dall’inizio del percorso formativo a coltivare questa modalità affettiva e ad assumerla come se fosse una prescrizione farmacologica.

Oltre a questo suggerimento, dopo i fatti accaduti al Policlinico Umberto I di Roma e in altri ospedali italiani, c’è da sperare che nel percorso formativo di medici e infermieri più che lezioni di arti marziali per difendersi, vengano introdotte misure che possano favorire la mediazione e  il recupero del rapporto medico/infermiere e paziente, che troppe volte viene messo in discussione.

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