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Spezzare la catena

Educare in famiglia alla legalità

Giovanni Falcone

Ancona, 23 maggio 2024 – Il 23 maggio di ogni anno, il nostro ricordo va al quel pomeriggio del 1992 a Capaci e all’attentato al magistrato Giovanni Falcone, a sua moglie e alla sua scorta. 57 giorni dopo toccò al giudice Paolo Borsellino, suo amico e collega, entrambi impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.

Dal 1986 facevano parte di un pool di magistrati guidati da Antonino Caponnetto e avevano istruito il maxiprocesso nell’aula bunker del Tribunale di Palermo, la più grande risposta a Cosa Nostra, organizzazione mafiosa artefice della strage di Capaci. 500 Kg di tritolo che cambiarono il volto dell’Italia.

Strage di Capaci

Dopo pochi mesi Salvatore Riina, il Capo dei capi, leader indiscusso del potere criminale, allora latitante, sarebbe finito in carcere e lo Stato avrebbe finalmente smantellato la cupola dei Corleonesi. Nonostante i verdetti che lo vollero condannato in primo e secondo grado, Riina promise agli affiliati che si sarebbe liberato dal carcere, in Cassazione, grazie a esperti avvocati e agli agganci che vantava in politica. Ma fu proprio la Cassazione a ratificare l’ergastolo al boss di Corleone. A quel punto Totò Riina per non perdere la faccia e quel ruolo che lo aveva proclamato al vertice dell’organizzazione mafiosa, dichiarò guerra ai magistrati e Giovanni Falcone era ai primi posti della lista delle persone scomode nel mirino di Cosa Nostra, da eliminare «e chiddu chi veni ni pigghiamu» «succeda quel che succeda», le parole di Riina prima della resa dei conti.

Aula bunker del maxi processo a Palermo

La vita di Giovanni Falcone, insieme a quella di Paolo Borsellino e dei tanti magistrati e investigatori specializzati nella lotta alla mafia, con i loro straordinari risultati, furono semplicemente contraddistinte da un denominatore comune cioè il senso della legalità e della giustizia. Nella repressione alla mafia, a dimostrazione della coerenza che connaturò la sua opera di magistrato, Falcone disse Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola. Gli attentati di Capaci e Palermo, impressero forza alla repressione della mafia e l’opinione pubblica rispose con la disapprovazione nei confronti delle istituzioni che non avevano fatto abbastanza per ostacolare quei fatti criminosi e sollevò in più occasioni forti dubbi sulla gestione della sicurezza dei due sorvegliati speciali, costretti a vivere sotto scorta.

La Direzione nazionale antimafia (DNA), oggi anche antiterrorismo (DNAA), con compiti di coordinamento delle procure, fortemente voluta da Giovanni Falcone e già cabina di regia dal novembre del 1991, assieme al braccio operativo della Direzione investigativa antimafia (DIA), superate le difficoltà iniziali, divennero nel corso degli anni l’epicentro dell’azione di contrasto alla mafia e rappresentano ancora oggi, la lungimirante visione del magistrato eroe.

Negli anni a seguire tante le mobilitazioni in tutta Italia, per promuovere la legalità.

Da Libera nata nel 1995 su iniziativa di Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di tante altre associazioni che si sono costituite per combattere le mafie.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Da allora, la cultura della legalità e della convivenza civile, viene promossa nelle scuole attraverso progetti di educazione che prevedono il contributo di personalità che hanno vissuto in prima persona o scritto di mafia e criminalità e con i loro interventi promuovono la conoscenza dei buoni comportamenti nella vita sociale.

Ma il processo di consapevolezza del rispetto e della funzione delle regole, nasce prima, in famiglia. È stato dimostrato che la maternità nella cultura mafiosa rappresenta per la donna la chiave per affrancarsi dal diffuso disprezzo sociale e la stessa riveste una fondamentale funzione pedagogica. Il potere mafioso, al fine di tenere i propri figli lontani dagli apparati educativi esterni quali la scuola, la parrocchia, i centri di aggregazione giovanile, delega alla donna della famiglia, la trasmissione dei principali valori mafiosi, come l’esaltazione del capo famiglia, il principio della vendetta, l’onore della famiglia. L’entità dei legami, tra madri, figli e famiglia può variare notevolmente incidendo sulle modalità di trasmissione del sapere. Il più delle volte l’atteggiamento delle donne è quello di attenersi alle rigide regole patriarcali con conseguente maggiore garanzia di preservazione del proprio spazio d’amore ma alcune donne invece usano questo spazio per osteggiare il crimine evitando la trasmissione del codice d’onore ai propri figli. Non sono vere e proprie insubordinazioni piuttosto sotterranee violazioni nella trasmissione dei codici mafiosi. La donna più che un uomo è in grado di spezzare la catena e possiamo comprendere quale sia il rischio che la struttura patriarcale di stampo mafioso corre affidando alle donne della famiglia l’educazione delle prossime generazioni criminali.

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