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Radical chic: l’evoluzione di un termine tra politica e società

Da Tom Wolfe ai salotti italiani, la metamorfosi di un'espressione che ha segnato il lessico politico contemporaneo

Ancona, 7 giugno 2024 – «L’8 e il 9 giugno non sono i salotti radical chic a parlare, ma il popolo, e quello del popolo è da sempre l’unico giudizio che ci interessa». Così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in uno spot elettorale per Fratelli d’Italia passato nei giorni scorsi su la7.

Ci sono termini che, soprattutto nel lessico politico, assumono a un certo punto un significato che non rispetta fedelmente quello originale. Si potrebbero fare parecchi esempi dal citatissimo sovranismo per arrivare fino a patriarcato. Tuttavia, non ci sono dubbi, quello che si è conquistato più spazio nell’immaginario collettivo è sicuramente radical chic.

Tom Wolfe

Ma in quanti sanno davvero quando e dove nasce l’espressione radical chic? In quanti conoscono il grande scrittore e giornalista americano Tom Wolfe, l’inventore del New Journalism, che questo termine l’ha coniato? Chi ha letto Lo chic radicale, il libro di Wolfe, edito per la prima volta in Italia da Rusconi nel 1973, da cui tutto ha avuto inizio?

Siamo nel 1970, a New York, Tom Wolfe viene invitato a un ricevimento, nell’attico di Park Avenue, del leggendario direttore d’orchestra Leonard Bernstein. Scopo dell’incontro, è chiaro fin da subito, una raccolta di fondi per il movimento delle Black Panthers, gruppo politico armato afroamericano di ispirazione marxista.

Agli occhi di Wolfe appare quanto meno dissonante che dei ricchi, famosi e borghesi, vogliano finanziare una formazione politica violenta che si propone, innanzitutto, di abbattere quel sistema che permette a quegli stessi finanziatori di legittimare la propria posizione.

Ne verrà fuori prima un lungo articolo che uscirà nel New York Magazine, dal titolo The party at Lenny’s, e poi un libro, Radical chic, che verrà pubblicato dalla casa editrice Farrar, Straus and Giroux, sempre nello stesso anno.

Wolfe descrive, con dissacrante maestria, i commensali inebriati dagli ideali delle Pantere rivoluzionarie, mentre nella sala girano vassoi d’argento colmi di bocconcini di Roquefort ricoperti di noci tritate. L’apoteosi dell’epoca radical chic, definirà appunto lo scenario. Nell’articolo, e poi nel libro, Wolfe però non manca di evidenziare come, a suo dire, tutte quelle persone, ricche e borghesi, sembrano attratte più dall’estetica dei rivoluzionari, vestiti rigorosamente in dolcevita nero e occhiali da sole, che non dalle loro rivendicazioni. Confondono, in pratica, un piano destabilizzante con un atto politico di natura estetica.

In Italia, come sempre, le cose arrivano in ritardo di qualche anno. Si deve a Indro Montanelli, nel 1972, la prima apparizione del termine radical chic. Sarà in una lettera aperta, pubblicata nel Corriere della sera, a Camilla Cederna (Lettera a Camilla) firma di punta de L’Espresso. La Cederna aveva chiesto in un suo articolo la destituzione del commissario Luigi Calabresi (poi assassinato dai terroristi), che riteneva responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avvenuta, in circostanze poco chiare, all’interno della Questura di Milano.

Da quell’articolo scaturì una petizione firmata da 757 intellettuali, che Montanelli, nella lettera a Cederna, definì magma radical chic. Scriveva anche, Montanelli, «C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola amore si dia il suo significato cristiano di fratellanza».

Indro Montanelli

Insomma, nelle parole di Montanelli si coglie ancora, più o meno, il senso che Wolfe aveva dato a radical chic. Ossia di un individuo all’apparenza poco coerente con le idee che esprime.

Nel tempo, però, a quell’ espressione è toccata la sorte infausta della rivisitazione. Oggi sentiamo usare radical chic per appellare persone, magari sì ricche e famose, dall’identità politica non certo anarchico-rivoluzionaria. Individui che si possono collocare nell’area culturale della sinistra, ma di una sinistra liberal.

Si tratta quindi, per lo più, di soggetti che appartengono al mondo dell’arte, della comunicazione o dello spettacolo (tipo Fabio Fazio, Oliviero Toscani, Jovanotti, Bono degli U2 o Alessandro Gassmann, giusto per fare qualche esempio famoso).

Radical chic, quindi, ha ormai una nuova accezione. E i Fazio, i Jovanotti, i Gassmann, non vengono delegittimati per le loro idee in sé, ma perché certe idee, tipo istanze inerenti all’apertura dei confini, ai diritti lgbt, al politicamente corretto, sono sentite dai loro detrattori come troppo facili e scontate da sostenere se fai parte delle classi sociali agiate.

A conferma di questo, navigando in internet, si può trovare facilmente una puntata di Coffee break dell’ormai lontano 2015, dove una giovane Giorgia Meloni (sempre lei), da poco presidente di Fratelli d’Italia, accusa il Governo Renzi che «stipa i migranti e i rom dove tanto non li può vedere la sinistra radical chic che abita nei quartieri bene e scarica tutto sulla povera gente».

Quindi, pur apparendo chiara, questa nuova accezione, presente principalmente in Italia, è facile concludere che non abbia più nulla a che fare con la spiegazione resa negli anni ’70 del secolo scorso da Tom Wolfe.

All’inizio degli anni 2000, Wolfe, ha pubblicato Hooking up un’opera fondamentale per capire in anticipo le mode, specie culturali, che dagli Stati Uniti si diffondono nel mondo. In Italia uscirà per Mondadori nel 2003 con il titolo La bestia umana.

Questo libro, però, deve essere evidentemente sfuggito a molti dei nostri politici, perché Wolfe racconta, con la solita spietatezza e da autentico fuoriclasse quale era, l’evoluzione da radical chic a marxista rococò, ma questa nuova categoria da noi non ha attecchito e non è mai entrata a far parte del discorso pubblico. Peccato, ci sarebbe stato da divertirsi.

La nostra classe politica, ne avevamo già scritto qui nelle scorse settimane, non legge. Per questo il più delle volte parla di cose che non sa e usa parole di cui non conosce, o travisa, il significato.

Consigliamo ai nostri politici di leggere Tom Wolfe, anche in virtù del fatto che così tanto inconsapevolmente, e a sproposito, viene citato. Servirebbe, quanto meno, per imparare a cogliere lo spirito dell’epoca in cui viviamo. E questo, in politica, non è qualcosa di secondario.

Lo chic radicale è stato ripubblicato dall’editore Castelvecchi nel 2014 con il più accattivante titolo Radical chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto.

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