24 Nov “The show must go on”
peste, colera o coronavirus: che differenza fa?
“ Il morbo infuria
il pan ci manca,
sul ponte sventola
bandiera banca!”
è un verso, celeberrimo, della poesia “Le ultime ore di Venezia”del patriota e poeta vicentino Arnaldo Fusinato (Schio, 1817 – Verona 1888). Me la fecero studiare a memoria a scuola circa sessant’anni fa e, ovviamente, allora non ne compresi affatto il significato. Ma chissà com’è o come non è m’è rimasta in testa.
Il componimento, scritto intorno al 1848/49, è un omaggio all’incredibile resistenza della città di Venezia all’assedio delle truppe austriache durante le guerre d’indipendenza. E anche allora la città lagunare dovette soccombere al nemico per le troppe malattie dei suoi abitanti falcidiati da un’epidemia di colera (il morbo infuria… il pan ci manca…).
Sarà, forse, proprio per quel verso incalzante fra le strofe del Fusinato che in questi giorni di pandemia da Covid-19 la lirica m’è tornata in mente. Una sorta di simbiosi, di stretto rapporto se vogliamo, tra le sofferenze dei veneziani di allora e gli italiani di oggi. Come se il far rivivere quelle lontane sofferenze potesse in qualche modo esorcizzare le angosce, le clausure e le resilienze di oggi.
In verità, non c’è paragone alcuno. Da quel colera a questo Covid son passati 172 anni: un’eternità riempita da un’evoluzione sociale e medico/scientifica senza precedenti. Per provare a rendere l’idea, all’epoca si moriva di Pellagra; oggi in Italia nessuno sa cos’è. All’epoca, la mortalità infantile fino a 5 anni viaggiava intorno al 50% dei nati (forse anche più); oggi siamo intorno al 2/3% circa (forse anche meno).
A Venezia, in quella metà di ottocento, a rendere impossibile la lotta contro il colera c’era una guerra in atto contro gli austriaci; oggi, in Italia, la guerra in atto è proprio contro il coronavirus. Combattuta con armi sanitarie potentissime ed impensabili rispetto a quelle che avevano a disposizione quei veneziani. Che infatti, quella guerra la persero. Senza sapere fino in fondo chi ringraziare (o maledire): se Napoleone Bonaparte,che li vendette ai borbonici; se i borbonici, che volevano annetterli; se il colera, che tolse loro forze e uomini per resistere all’assedio.
Tornando all’oggi, ancora non è dato sapere se noi vinceremo questa guerra subdola e sconosciuta contro il coronavirus. Dopo 9 mesi di battaglie combattute a suon di tamponi, terapie intensive, zone rosse, milioni di positivi, mascherine e gel igienizzante, sul campo delle corsie d’ospedale, nelle terapie intensive e nelle clausure delle Rsa abbiamo già lasciato oltre 50mila morti. E altri ne lasceremo prima dell’arrivo risolutore di un vaccino efficace. Tra un anno o due, inoltre, a queste morti dovremo sommare quelle delle attività economiche che non avranno superato la crisi prodotta da chiusure e limitazioni varie.
Ne usciremo, è fuor di dubbio. Così come Milano uscì dalla peste e Venezia dal colera: l’umanità ha sempre superato le varie pandemie che si sono succedute nei secoli, pagando di volta in volta prezzi elevatissimi in termini di vite umane. Ripartendo, ogni volta, con nuove consapevolezze e aspettative. Trovando sempre nuovi slanci e dimenticando in fretta. The show must go on (lo spettacolo deve continuare), scrive Brian May nell’omonimo pezzo portato al successo dai Queen. Aggiungendo, nella riga successiva del testo, Inside my heart is breaking, il cuore mi si sta spezzando dentro… Quello stesso cuore, a mio avviso, che scrisse: il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola, bandiera bianca; solo, con qualche battito e qualche consapevolezza in meno dovuta ai tempi e alle armi spuntate.
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