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Solitudine, resilienza e stupidità

L’emergenza Coronavirus costringe le persone a misurarsi con i propri limiti esistenziali

7 marzo 2020 – Oggi niente dati statistici sul Coronavirus, non da qui almeno, gli daremo seguito in altra parte del giornale. Da qui, oggi, vorrei affrontare il tema delle reazioni delle persone di fronte ad un accadimento straordinario, stravolgente e limitante com’è, di fatto, il Coronavirus.

Centomila casi nel mondo (circa 90 i Paesi interessati), e quasi tremilacinquecento morti destinati a salire, non sono uno scherzo. I Governi, quello cinese e quello italiano in testa, hanno messo in campo misure drastiche e rigidissime: interi Comuni in quarantena nelle zone rosse, chiusura di scuole e sospensione di ogni attività sociale, culturale, sportiva. Anziani invitati a stare in casa, gli altri invitati a non frequentarsi, a non parlarsi, a non stringersi la mano e a non baciarsi. Tutti, invitati a lavarsi spesso le mani e a starnutire nell’incavo del braccio. Un’economia che sta andando a rotoli. E siamo solo all’inizio.

L’individuo è stato concepito come animale sociale, vive di rapporti interpersonali, di scambi e di contatti, di confronto, di libertà di movimento. Come può accettare e come reagisce a limitazioni così rigide e “antisociali” che possono durare anche tre-quattro settimane di fila? Nei modi più disparati. è ovvio, dettati principalmente dalla propria personale cultura e, dunque, anche dalla propria ignoranza.

C’è chi in primis incolpa il Governo di turno incapace di far fronte all’emergenza. Poi, passa ad attaccare i media colpevoli di fare del terrorismo psicologico. Poi se la prendono con le strutture sanitarie inadeguate. Insomma, quanto di più becero possibile pur di allontanare da sé colpe, responsabilità, impegno personale, sacrifici e restrizioni. Un infilare la testa sotto la sabbia, minimizzando la realtà, che nasconde la consapevolezza inconscia dell’aver paura ad affrontare seriamente un ignoto verso il quale non si hanno difese.

La verità è che le persone hanno perso la capacità di stare bene anche da sole. Non si bastano più, e per sentirsi vive hanno bisogno di socializzare, di trasmettere ad altri le proprie ansie, e di sentire che al di là delle baggianate che raccontano c’è comunque chi li sta a sentire. Chi sa star bene da solo, sta benissimo quando è solo; Chi non sa stare da solo, sta malissimo quando è solo. Recita più o meno così un detto di manzoniana memoria.

Abbiamo perso il concetto di resilienza, la capacità cioè di far fronte in modo positivo agli eventi traumatici. La capacità di saper riorganizzare la nostra vita di fronte a difficoltà che non pensavamo di dover affrontare. Così, per paura dell’ignoto, diamo spazio alla nostra stupidità e lasciamo che prenda il sopravvento sulla razionalità e sul senso di comunità. Un sentire che in Italia non c’è mai stato e che, quando c’è, è distribuito sul territorio a piccole macchie di leopardo.