Camerano, 01 novembre 2023 – Ma davvero vale la pena vivere in questo mondo? Sempre più spesso mi pongo la domanda che, al netto degli accadimenti e del decadimento socioculturale che stiamo attraversando, non è affatto banale. Sarà che un altro mondo possibile l’ho vissuto davvero qualche decennio fa, quando tutto era più semplice e con una stretta di mano si comperava un toro di razza Fassona o si vendevano dieci ettari di terreno, certi che l’affare sarebbe comunque andato a buon fine anche se non c’era un contratto scritto: quello sarebbe venuto dopo, quel che contava davvero era la parola data.
Lo dico alle nuove generazioni che s’affacciano oggi al mondo del lavoro, e glielo giuro: c’è stato un tempo in Italia, qualche decennio fa, dove non era importante se perdevi il lavoro perché se avevi voglia e poca puzza sotto il naso il giorno dopo ne trovavi un altro. Non c’era la necessità di migrare all’estero. Non esisteva il precariato o il contratto a tempo determinato o i voucher.
Un tempo dove i giovani davano del lei agli adulti, agli insegnanti, al proprio datore di lavoro, ma non era sudditanza o schiavismo, si chiamava rispetto e molto spesso chi lo dava lo riceveva in egual misura. Giuro, era proprio così. Addirittura, c’è stato un tempo in cui un semplice operaio poteva accendere un mutuo per l’acquisto di casa senza garanti esterni. Milioni di operai poterono farlo. Lo so perché lo fece anche mio padre. Ma quella era una generazione che conosceva il valore del “fare sacrifici”.
Quel periodo, che non tornerà più, non era arrivato per caso. Era stato la somma di decenni precedenti passati a far fatica nei campi, nelle risaie, nelle saline, nelle fabbriche. Decenni costellati di rinunce e sogni mai concretizzati perché ai primi posti nella scala dei valori c’erano la famiglia, i figli, la dignità. Quel che succedeva nel mondo contava poco, contava garantire un futuro a se stessi e al proprio nucleo familiare. Non c’era tempo per altro, per farsi la guerra o per condannare i costumi del vicino di casa.
Poi, all’improvviso, è successo qualcosa. Le strette di mano hanno perso valore, certi lavori gli italiani non li hanno voluti fare più, tutti protesi all’acquisizione di una laurea, di un benessere superiore, di uno status sociale dove essere contadini e/o operai semplici non era più contemplato. L’umiltà di certi lavori – comunque necessari alla sopravvivenza di una comunità – l’abbiamo demandata agli ultimi, fino ad arrivare a che gli ultimi fossero gli extracomunitari. Anche perché, essendo tanti, li si può sfruttare.
Il profitto, in ogni sua declinazione, ha preso il sopravvento su tutti gli altri valori disgregando le famiglie. Il progresso tecnologico e social ha cambiato radicalmente quasi tutti i modelli del passato, portando precarietà e sempre meno riconoscenza del merito. Le classi politiche, preoccupate di non perdere consensi e di durare quanto più possibile, anziché intervenire hanno chiuso un occhio- se non entrambi – dando al popolo meschino non quel che era giusto ma quel che era conveniente. Producendo, in ultimo, quell’enorme debito pubblico che grava sulle spalle di 60 milioni di italiani, bimbi compresi, che castra in buona parte una sana e dignitosa gestione della cosa pubblica: pensioni, sanità e sviluppo.
Aggiungiamoci, in questi giorni, la Russia, l’Ucraina, Israele, la Palestina, la Striscia di Gaza, i due milioni di famiglie italiane (oltre cinque milioni di persone), che versano in povertà assoluta e quasi cinque milioni di italiani che percepiscono una pensione minima, ed ecco che la mia domanda iniziale ha un senso: “davvero vale la pena vivere in questo mondo?”
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