Ancona – Mercoledì 29 marzo presso il Tribunale di Ancona inizia il processo di secondo grado per Giuseppe e Salvatore Farina, rispettivamente padre e figlio, condannati all’ergastolo in primo grado per l’uccisione di Pietro Sarchiè, il venditore ambulante di pesce di San Benedetto del Tronto freddato con otto colpi di rivoltella il 18 giugno 2014.

Una vicenda incredibile che a suo tempo riempì le cronache e le prime pagine dei giornali per mesi e mesi, tanto era stata la crudeltà e la ferocia degli assassini, capaci di mettere in piedi un disegno criminoso senza precedenti.
Con l’aiuto di Ave Palestini, la vedova Sarchiè, proviamo a ricostruire la vicenda.
Pietro Sarchiè, nato a Porto San Giorgio e residente a San Benedetto del Tronto, sposato con Ave e padre di due figli, Yuri e Jennifer, 61 anni all’epoca dei fatti, era un venditore ambulante di pesce. Ogni mattina si alzava prestissimo, intorno alle due, comperava il pesce all’ingrosso, lo caricava sul suo camion frigo e lo andava a vendere nel maceratese: Pioraco, Sefro, Fiuminata… ogni giorno un Comune diverso. Aveva anche un negozio a Visso. Quella vita la faceva da 40 anni – era prossimo alla pensione – e prima di lui l’avevano fatta suo padre, sua madre, i suoi nonni e gli zii.

Pietro Sarchiè era conosciuto e stimato da tutti. Una gran brava persona, un buon padre e un marito modello, di quelli che se non ci fossero bisognerebbe inventarli.
18 giugno 2014
Quella mattina, come sempre, Pietro esce di casa intorno alle due di notte. Sua moglie Ave, non lo rivedrà più vivo. «Aveva l’abitudine – ricorda Ave – di chiamarmi al telefono tra le otto e le nove. Sempre. Quel mattino non lo ha fatto. Ho provato a chiamarlo a mia volta ma non rispondeva. Allora mi sono allarmata, lui era sempre molto preciso con gli orari. Ho telefonato al sindaco di Pioraco per avere notizie, lei era una sua cliente. Si è subito attivata chiamando ospedali, carabinieri, vigili, forestale… Ma nessuno lo aveva visto, sparito nel nulla!»

Ore 10.30 – Fatta la denuncia di scomparsa ai carabinieri di San Benedetto, Ave e il figlio Yuri partono per cercare Pietro e fanno il giro dei Comuni dove lui lavorava. Niente. Lo cercheranno per 17 giorni, nei boschi, all’interno dei casolari abbandonati, in fondo ai burroni. Ma di Pietro non c’è traccia.
5 luglio 2014
Il cadavere di Sarchiè viene ritrovato. «Quel mattino ci è crollato il mondo addosso – racconta Ave – non potevamo crederci e non ci crediamo tutt’ora. Hanno trovato il corpo di mio marito bruciato, con cinque proiettili in corpo e uno in testa, quello mortale, sepolto sotto un cumulo di terra e immondizia a Valle dei Grilli in zona San Severino. L’hanno riconosciuto perché in mezzo alla terra hanno ritrovato la fede matrimoniale con inciso il mio nome».
6 luglio 2014
Iniziano le perquisizioni dei Carabinieri nei capannoni della zona. In uno, quello di Santo Seminara, vengono rinvenuti alcuni mucchi di pezzi di camion bruciati. Al culmine di uno di questi spunta la foto di una donna che ha resistito alle fiamme: «Era la foto della mamma di mio marito – ci dice Ave – l’unica cosa che non s’era bruciata. Stava lì come a dire agli inquirenti: “è da qui che dovete iniziare le indagini”».

E proprio da quella pista sono partiti gli inquirenti. Il capannone di Seminara veniva sequestrato. I cellulari di vari indiziati venivano messi sotto controllo. Con tenacia le indagini sono proseguite fino a restringere il cerchio intorno a 4 indagati: Giuseppe e Salvatore Farina, rispettivamente padre e figlio; Domenico Torrisi e Santo Seminara, tutti originari di Catania. È sempre Ave a rivivere quei terribili momenti: «Lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere di mio marito i Farina padre e figlio sono scappati a Catania».
Gli inquirenti hanno impiegato sette mesi d’indagini serrate per venire a capo della storia.
24 febbraio 2015 Giuseppe e Salvatore Farina vengono arrestati a Catania e condotti nel carcere di Camerino. I due complici, Torrisi e Seminara, relegati ai domiciliari. La Procura li interroga ma loro danno almeno 5 versioni diverse sui fatti, cercando di rimescolare le carte a proprio favore. Arrivano persino a minacciare i testimoni. «C’è voluto più di un anno per arrivare alla verità – conferma Ave – gli inquirenti hanno fatto un lavoro incredibile. Alla fine, quei delinquenti si sono trovati con le spalle al muro: c’erano le intercettazioni, le immagini delle telecamere, i vari testimoni. Di fronte all’evidenza, Giuseppe Farina ha confessato per scagionare il figlio, ma le cellule telefoniche li posizionavano tutti e due sul luogo dell’agguato, vicino alla chiesa di Sant’Arcangelo in località Perito».
14 ottobre 2015
I Farina vengono ascoltati per la prima volta in udienza.
13 gennaio 2016
Arriva la sentenza di 1° grado: ergastolo con isolamento diurno per i Farina per concorso in omicidio, poi ridotto al semplice ergastolo per via del rito abbreviato. Torrisi se la caverà con qualche mese ai domiciliari, mentre per il Seminara, dopo ben 4 rinvii, si arriverà finalmente a processo, a Macerata, martedi 28 marzo.
Il movente
Ma perché i Farina, con la complicità di Torrisi e Seminara avevano deciso di eliminare Pietro Sarchiè? Ce lo racconta la vedova Ave. «Hanno fatto una cosa orrenda e distrutto una famiglia per motivi futili – afferma la donna – per invidia e per concorrenza sul lavoro. Salvatore Farina s’era messo a vendere il pesce: stesse zone di mio marito ma in giorni diversi. Non poteva certo competere con l’esperienza e la professionalità di Pietro che stava sulla piazza da quarant’anni ed era conosciuto e stimato da tutti. Così, per rendersi la vita più facile, padre e figlio hanno deciso di eliminare la concorrenza letteralmente. E l’hanno ammazzato in quel modo brutale.
In pratica, padre e figlio architettano un piano diabolico. Aspettano Pietro in località Sellano, inscenano un tamponamento al suo furgone Ford per obbligarlo a fermarsi, prima ancora che abbia il tempo di scendere dal mezzo gli sparano alcuni colpi di pistola. Ma l’arma non è potente, è di quelle usate al poligono, così sono obbligati a sparargli in testa per finirlo.

Subito dopo si mettono alla guida del mezzo di Pietro. Arrivano a San Severino, in Valle dei Grilli una località isolata e lì, in un casolare abbandonato, bruciano parzialmente il cadavere di Pietro e lo nascondono con terra e calcinacci. Poi si dirigono a Castelraimondo e nascondono il furgone di Sarchiè all’interno di un capannone di proprietà di Santo Seminara.
Con la complicità di Domenico Torrisi il Ford verrà smontato in almeno 150 pezzi, in piccola parte bruciati all’esterno del capannone. Alcuni vengono venduti a un autodemolitore di San Severino, altri a una ditta di smaltimento rifiuti di Treia, altri ancora sparsi nelle campagne di Valle dei Grilli, a Sant’Anna di Matelica, in una cava di Castelraimondo e nel garage dello stesso Torrisi.
29 marzo 2017
E arriviamo ai giorni nostri. Mercoledì prossimo, 29 marzo, presso il Tribunale di Ancona va in scena il processo d’appello di secondo grado. Gli avvocati difensori dei Farina, facendo ovviamente il loro mestiere, chiedono la pena minima per Farina padre perché, dicono, ha confessato e ha collaborato alle indagini. Proveranno anche a far cadere la premeditazione, nonostante le prove schiaccianti indichino l’esatto contrario. Per Farina figlio, invece, chiedono addirittura l’assoluzione: Salvatore non ha mai confessato e dunque, per gli avvocati, risulta estraneo ai fatti.
«Due tesi indifendibili – si accalora Ave – le prove sono schiaccianti, esistono tanti testimoni. Padre e figlio hanno collaborato per studiare il piano, insieme hanno scelto i luoghi, entrambi hanno sparato a mio marito; per ammazzarlo hanno dovuto ricaricare l’arma; insieme, e con l’aiuto dei due complici Seminara e Torrisi hanno fatto sparire le tracce. Sono indifendibili. Io, mio figlio Yuri e mia figlia Jennifer chiediamo giustizia e la riconferma dell’ergastolo per tutti e due!»