Anni fa eravamo abituati all’autunno caldo quando, tornati dalle ferie, gli operai metalmeccanici italiani lottavano per il rinnovo del contratto o per le rispettive rivendicazioni sindacali. Oggi, con l’appiattimento delle piattaforme, l’abolizione dell’art. 18 e, di fatto, l’inconsistenza e l’incapacità dei sindacati a mantenere ed esercitare il proprio ruolo a difesa del proletariato, quegli autunni là ce li siamo dimenticati.
Nonostante ciò, in questo 2017 arso da una calura estiva da record, l’autunno si preannuncia nuovamente caldissimo a livello europeo. E ad alimentare le fiamme sotto il calderone ci sta pensando il vento indipendentista che soffia da Barcellona in direzione Madrid.

La Catalogna vuole l’indipendenza, sogna di staccarsi definitivamente dal giogo politico/sociale/economico impostogli nel tempo dal governo centrale e dalla Costituzione spagnola. E lo fa sul serio, indice un referendum popolare che Madrid denuncia come incostituzionale. E a quei catalani che non lo vogliono capire – pare siano milioni – il governo madridista manda i propri poliziotti per riempirli di botte.
La regione della Catalogna è la più ricca della Spagna. Ne fa parte dal 1470 circa. Ha una sua marcata identità nazionale e una lingua propria, che nell’epoca del franchismo era vietato parlare. Nel 1931, con la nascita della Repubblica, alla Catalogna furono concessi particolari privilegi che vennero tutti annullati sotto la dittatura di Franco (1939-1975). Nel 1978, la costituzione democratica spagnola tornò a riconoscergli un alto livello di autonomia. Ha dato i natali ad artisti come Salvador Dalì, Joan Miro e Antoni Gaudì.

Sulla sua richiesta di autonomia pesa il fattore economico: è fra le principali mete turistiche della Spagna; è una delle regioni più ricche e industrializzate del paese, lì hanno sede fabbriche come la Seat e la Nissan, oltre a migliaia di multinazionali; ha 7,5 milioni di abitanti, pari al 16% della popolazione spagnola, e contribuisce al 19% del Pil iberico. Vanta un reddito pro capite pari a 27.663 euro contro i 24.100 della media spagnola; una disoccupazione del 13,2% rispetto al 17,2% del resto del paese. Barcellona ha un porto e un aeroporto che la rende una città economicamente e culturalmente vivace, capace di attirare ogni anno milioni di turisti e di studenti stranieri.

La rottura con il resto della Spagna si è consumata a partire dalla crisi economica del 2008, quando le misure di austerity imposte dal governo centrale hanno acuito il sentimento separatista.
Come andrà a finire? Non è facile dirlo oggi. Occorrerà valutare la capacità diplomatica fra le parti, le reazioni del popolo alle varie provocazioni, la possibilità della Catalogna di esistere economicamente fuori dall’EU. Un’Europa Unita che al momento sta a guardare e lavora sottotraccia, forse inconsapevole – forse astutamente conscia – che allargando i propri confini non fa altro che restringere la libertà dei popoli.
Resta, nell’attesa, l’ironia dei social network. C’è un post in questi giorni su Facebook che recita: “Caos nelle pasticcerie: la crema Catalana rifiuta di stare vicino al pan di Spagna”.